Quando gli oggetti avevano un valore intrinseco e venivano utilizzati per decenni, riparandoli più volte e riutilizzandoli fino a quando era possibile farlo; senza mai cedere alla tentazione di acquistarne uno nuovo, le figure artigianali dedite alla riparazione avevano un'importanza fondamentale e anche un buon mercato.
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Queste figure dell'antico lavoro artigiano salentino si caratterizzavano per un aspetto in particolar modo: non avevano una bottega, né un luogo stabile dove lavorare; molto spesso riuscivano ad effettuare la riparazione per strada o in casa del committente. In genere si portavano appresso i pochi e rudimentali strumenti di lavoro di cui disponevano.
L'arrotino arrivava nel paese con la sua strana bicicletta, lanciando il suo richiamo: Mmulaforbici, mmulaforbici; le donne s'affacciavano dalle porte ad invitarlo a fermarsi, e gli portavano le forbici ed i coltelli, se c'erano gli uomini anche gli attrezzi agricoli, cui affilare la lama.
La bicicletta dell'arrotino aveva montato sul manubrio un disco di pietra arenaria abrasiva che ruotava intorno ad un perno, collegato mediante una cinghia ai pedali: si sganciava la ruota posteriore dai pedali, premendo sui quali si muoveva la cinghia e attraverso di quella il disco di pietra, contro la cui circonferenza, mantenuta sempre umida, si poggiava la lama da affilare.
Il conciabrocche era colui che riparava lu limbu, ovvero un grande catino di terracotta, utilizzato prevalentemente come lavatoio; lu cconzalimbi non riparava soltanto i limbi, ma qualunque oggetto di terracotta; la parsimonia della cultura contadina, che non era avarizia bensì considerazione e rispetto dei beni materiali, tendeva a conservare ed a riparare gli oggetti danneggiati, per cui allorché un piatto o una giara si rompevano o mostravano segni di prossima frattura, venivano riposti in attesa che passasse lu cconzalimbi.
L'attrezzatura di questo artigiano ambulante era ridottissima: calce e in seguito cemento, una tenaglia, filo di ferro, ed uno strano aggeggio chiamato trapanaturu.
Lu trapanaturu era costituito da un bastone lungo circa 50 cm., con un foro all'estremità superiore e terminante in giù con una punta di ferro, un chiodo; veniva infilato in una striscia di legno, forata al centro per inserirvi il bastone, e alle due estremità per legarvi i capi di una solida corda vegetale la quale, passando per il foro del bastone, collegava verticalmente, in una croce, bastone e striscia di legno. Infine il bastone è inserito nella parte terminale, in un ovoide in legno di ulivo appesantito da chiodi, che fungeva da volano.
Lu trapanaturu serviva a praticare dei forellini nella terracotta da riparare, in questa maniera: la punta di ferro finale veniva poggiata sul coccio e tenuta ferma con la mano sinistra; quindi con la destra il conciabrocche, sempre tenendo ferma la punta metallica sul coccio da forare, con la mano destra sollevava ed abbassava la striscia di legno, con la conseguenza di avvolgere e svolgere ripetutamente il filo, che faceva ruotare velocemente il bastone ed il chiodo fissato all'estremità il quale forava lentamente il coccio; il movimento veniva facilitato e potenziato dal volano.
Lu conzalimbi praticava due file di fori lungo entrambi i lembi dell'oggetto rotto, a due a due corrispondenti; poi faceva passare tra i due buchi corrispondenti un filo di ferro lungo una decina di centimetri, i cui capi avvolgeva strettamente e delicatamente su se stessi; una volta finita questa operazione, i due lembi ed i fori venivano ricoperti con calce o cemento: l'intervento figulo-chirurgico era completato.
Il più famoso cconzalimbi italiano è ovviamente lo zi Dima pirandelliano il quale nella celeberrima novella La Giara riesce, irritato dagli atteggiamenti sospettosi di don Lollò, a rinchiudersi nel panciuto recipiente, avendo eseguito l'intervento di riparazione... dall'interno!
I proverbi de lu Cconzalimbi
Ci conza limbi e ci cconza quatare: lassa l'arte a cci la sape fare.
Chi ripara catini e chi caldaie: lascia l'arte a chi la sa fare.
Lu mbrellaru, lu mbrellaru!, si propagandava per le vie del paese: A cci ccunzàmu lu mbrellu? (A chi ripariamo l'ombrello?), così urlava l'ombrellaio ed arrivava sempre qualche ombrello con un raggio staccato, o un enorme ombrello da pastore con la stoffa da rattoppare o un elegante ombrellino da passeggio cui sostituire la cupola usurata.
L'ombrellaio conosceva le regole elementari del sarto, del fabbro, del falegname, ed in pochi minuti l'ombrello tornava in piena efficienza.
Gli strumenti de lu mbrellaru: forbici, tenaglia, lima, chiodini, coltello, ago, filo e stoffa ed una piccola provvista di pezzi di ricambio, recuperati da ombrelli del tutto inservibili.
Lu mpajasegge riparava o rifaceva non solo l'impagliatura ma anche le parti in legno delle sedie; a l'impagliatore ovviamente venivano affidate le sedie dozzinali, non quelle eleganti ed elaborate delle famiglie ricche.
L'impagliatore valutava ad occhio il lavoro e se questo era di piccola entità lo eseguiva seduta stante, altrimenti si portava via la sedia con l'impegno di riportarla riparata al prossimo ritorno; poteva capitare che qualche volta l'artigiano non mantenesse l'impegno, o almeno così sostenevano i sospettosi; per questa ragione, con una buone dose di autoironia il richiamo dell'impagliatore veniva espresso con alcuni simpatici versi.
I proverbi de lu Mpajasegge
Lu mpajasegge, lu mpajasegge... A cci ggiustàmu le segge? Le mpaianu, le ggiustàmu, le tingìmu e poi... ni le tenimu!
A chi ripariamo le sedie? Le impagliamo, le ripariamo, le tingiamo e poi... ce le teniamo.
Il legascope era un mestiere stagionale, in quanto la materia prima era disponibile ed utile soltanto tra l'estate avanzata e il primo autunno. La materia prima sarebbe un tipo di saggina (Sorghum saccaratum) che si usava quasi esclusivamente per fabbricare le scope; tant'è che la pianta in questo territorio si chiama scupa; ha un chicco non commestibile, per cui si utilizzavano soltanto i fusti, che venivano tagliati alla base, ripuliti dalle foglie e messi a seccare.
Lu ttaccascupe aveva come attrezzi lu ssujone, una grossa lesina o punteruolo con il manico di legno trasversale, un falcetto e un fascio di giunchi già battuti (per renderli più flessibili) salvo che ad una estremità.
L'artigiano prende un mazzo di steli di saggina, li raggruppa circolarmente e li lega strettamente con una corda all'inizio della chioma; quindi bucato il mazzo all'altezza della legatura con il ssujune, fa passare nel foro un giunco (servendosi come ago dell'estremità non battuta, quindi rigida) e poi tira il giunco, stringendo il più possibile il mazzo che è già uno scupareddhu, una piccola scopa.
Ne prepara altri due, sempre con il punteruolo li buca e li lega insieme ben stretti con dei giunchi.
A questo punto lu ttaccascupe sistema la parte superiore della granata, legando a diverse altezze tra di loro i fusti della saggina e contemporaneamente eliminando quelli rotti e quelli più interni, così che il manico risulta impugnabile senza difficoltà; spesso all'interno veniva inserita una canna, per avere una maggiore solidità.
Rimane la parte inferiore, la chioma: l'artigiano, sempre col giunco, legava le parti terminali dei fusti a mazzetti ed i mazzetti tra loro, cosicché si otteneva una chioma morbida a contatto col terreno, e sufficientemente solida.